03 Dic Linguaggio inclusivo: cos’è e perché ne abbiamo bisogno
Il linguaggio inclusivo si pone come obiettivo di dare adeguata e rispettosa rappresentazione a tutte le persone coinvolte nella narrazione in corso.
Il tema del linguaggio inclusivo è diventato popolare negli anni ’20 di questo secolo, ma è almeno dal 1987 che in Italia se ne parla -e scrive – grazie ad Alma Sabatini, linguista, saggista e attivista che ha stilato le RACCOMANDAZIONI PER UN USO NON SESSISTA DELLA LINGUA ITALIANA.
L’obiettivo delle Linee Guida di Sabatini era di dare “visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile”.
Col passare degli anni si sono affacciate nuove istanze sia nelle agende dei linguisti che della comunità di parlanti e a oggi il linguaggio inclusivo, ça va sans dire, pone attenzione a tutte le identità presenti nella nostra contemporaneità.
La conversazione sul linguaggio inclusivo è molto polarizzata, soprattutto per la questione del maschile e femminile.
Prima di approfondire ritengo doveroso fare alcune premesse:
- la lingua italiana non ha il genere neutro; lo aveva il latino ma si è perso strada facendo.
- la lingua italiana ha una struttura diversa dalla lingua inglese e per questo le due non paragonabili, sebbene talvolta emergano istanze pretestuose che cercano di compararle.
- la struttura grammaticale dell’italiano è pronta ad aggiungere nuove parole poiché le regole della grammatica già esistono, non serve inventarle.
- una parola nuova (aggettivo, sostantivo, neologismo, ecc.) si introduce quando la comunità di parlanti la utilizza in modo diffuso.
- la lingua è viva perché usata da persone vive; è quindi fisiologico che cambi sulla base delle esigenze dei parlanti.
- sono le persone a fare la lingua, non le istituzioni: questo passaggio è fondamentale per ricordarci che non ci sono dei “poteri forti” che impongono delle parole dall’alto, Semplicemente, le parole entrano in circolo quando servono.
- le parole nuove entrano in gioco quando c’è un nuovo elemento da rappresentare, quando c’è una “cosa nuova” che richiede di essere nominata per esistere.
Ad esempio, i decoder o gli smartwatch: sono parole nuove che rispondono all’esistenza di oggetti nuovi.
Vale anche per le persone e i mestieri: data scientist è una parola nuova che indica un mestiere nuovo.
Spesso nella lingua si introducono nuovi elementi quando ci si posa lo sguardo sopra con consapevolezza, attenzione e accresciuta sensibilità.
Dando forma al mondo, la parola riveste il ruolo di ‘materializzatrice’, e comporta una modifica del pensiero e dell’atteggiamento dei parlanti.
Può perpetrare ingiustizie e inequità oppure contribuire a rendere la rappresentazione più equa e rispettosa.
Un cambio di approccio sta avvenendo sui temi della disabilità e della malattia, dando attenzione alla persona in primis e successivamente alla sua condizione, che può essere temporanea o permanente.
Per questo, si sta diffondendo l’utilizzo di ‘persona con disabilità’ piuttosto che ‘disabile’ o ‘persona con dislessia’ al posto di ‘dislessica’.
Nel dubbio su un caso specifico, nulla vieta di chiedere alla persona come preferisce essere rappresentata.
La rappresentazione e l’autorappresentazione sono infatti due punti di attenzione: troppo spesso sono le maggioranze a detenere la facoltà di rappresentazione e descrizione delle minoranze, ideando spot, pubblicità, racconti senza tener conto del punto di vista dei soggetti rappresentati.
Mentre questi cambiamenti stanno avvenendo in modo tutto sommato indolore, non si può dire lo stesso delle parole che riguardano il femminile.
Tradizionalmente ci si è rivolti alla moltitudine usando il cosiddetto “maschile sovraesteso”.
Questa modalità ha funzionato finché alcune persone non hanno sentito l’esigenza di avere adeguata rappresentazione: ci sono infatti persone che non si identificano col maschile e che quindi nel maschile sovraesteso letteralmente scompaiono dalla narrazione.
Scomparendo, non vengono rappresentate, spariscono dalle agende e dalla rappresentazione plurale che la nostra lingua invece consente e che la nostra società sta integrando.
Oggi, appare infatti irragionevole pensare un mondo solo al maschile o dove il maschile sia il modello.
L’uso dei femminili è un terreno di battaglia molto accesa e la battaglia è più sociale e culturale che grammaticale.
Le principali obiezioni all’uso dei femminili sono facilmente confutabili:
- “suona male”: suona male finche non si comincia a sentire; è questione di farci l’abitudine e l’abitudine la facciamo strada facendo. Probabilmente anche ‘senatrice’ all’inizio drizzava le orecchie, pian piano anche sindaca e avvocata saranno d’uso comune
- ‘e allora diciamo anche giornalisto‘: in italiano alcune parole sono di genere promiscuo, come appunto giornalista, sentinella, pediatra (e tutti gli -iatra, psichiatra, odontoiatra … ), presidente (e tutti gli -ente, docente, reggente..). Non serve dire ‘giornalisto’, è sufficiente usare l’articolo che concorda con il genere.
- ‘c’è ben altro di cui occuparsi’: certo, c’è sempre ben altro, ma per fortuna gli esseri umani possono occuparsi di più istanze contemporaneamente.
- ‘il maschile è più prestigioso’: questo è un argomento tricky.
Perché è vero che fino a un certo momento le professioni prestigiose erano appannaggio del mondo maschile, ma sempre di più si vedono professioni prestigiose ricoperte da donne e declinare le professioni al femminile dà visibilità all’esistente.
La grammatica è già pronta. Siamo noi parlanti che dobbiamo attrezzarci affinché quello che sta avvenendo nella società trovi anche adeguata rappresentazione linguistica.
Libri per approfondire:
Vera Gheno, Femminili Singolari, effequ, 2019 https://www.effequ.it/saggi-pop/femminili-singolari/
Fabrizio Acanfora, In altre Parole. Dizionario minimo di diversità, effequ, 2021 https://www.effequ.it/attenzione-parenti/in-altre-parole/
Francesca Vecchioni, Pregiudizi Inconsapevoli, Mondadori, 2020 https://www.mondadori.it/libri/pregiudizi-inconsapevoli-francesca-vecchioni/